17 Dicembre 2025
La dodicesima Relazione dell’ART mostra una regolazione economica matura
Manca ancora una concreta prospettiva per valorizzare adeguatamente il capitale umano della mobilità
Dopo aver letto la dodicesima Relazione annuale dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti (ART), fin da subito, la percezione è stata limpida: si è chiuso un ciclo e ne è cominciato uno nuovo. L’Autorità, istituita nel 2011 in un contesto di forte tensione finanziaria e di pressioni provenienti dai mercati e dalle istituzioni europee, oggi opera come un ente consolidato. Dispone di competenze tecniche definite e svolge attività di analisi, misurazione e regolazione. Per molti anni ci siamo chiesti se la regolazione fosse stata in grado di reggere ai conflitti, alle resistenze, agli interessi stratificati. Oggi quella domanda è superata. La vera questione non è più se la regolazione funziona, ma come può evolvere. Perché un sistema dei trasporti può disporre di pedaggi ben calcolati, titoli concessori per la gestione di autostrade e linee ferroviarie ben definiti e modelli tariffari evoluti ma, nel frattempo, si possono indebolire lavoro, qualità e coesione sociale.
È come ascoltare un’orchestra con partiture impeccabili e musicisti di talento, ma in cui manca ancora una direzione unitaria: ogni sezione suona, ma non sempre all’unisono. Il sistema funziona, ma potrebbe esprimere un’armonia molto più piena e coerente. È proprio in questi momenti che diventa essenziale ciò che chiamo la bussola sociale. Non è un ostacolo alla tecnica né un freno all’innovazione; non è l’ennesimo vincolo che irrigidisce le scelte. Al contrario, è lo strumento che permette di orientare i progressi, di dare coerenza agli investimenti, di ricordare che nei trasporti il fine non è la perfezione dei modelli, ma il benessere delle persone che quei modelli li rendono vivi, efficienti, efficaci e di qualità.
La bussola sociale salvaguarda un principio semplice ma fondamentale: un sistema dei trasporti è veramente moderno non quando raggiunge la massima efficienza tecnica, ma quando unisce l’efficienza alla responsabilità etica verso chi ogni giorno lo fa muovere e verso chi lo utilizza per vivere, lavorare, spostarsi.
La tecnica traccia il percorso. La bussola sociale ne assicura il senso, la qualità e l’equità.
Dall’ART “di emergenza” all’ART “regista di sistema”
Quando fu istituita, l’ART era una risposta difensiva: serviva a rassicurare Bruxelles, a dimostrare che l’Italia sapeva separare l’arbitrarietà politica dalla regolazione economica.
Oggi la situazione è diversa. Paradossalmente, l’Autorità è diventata una delle poche istituzioni “offensive” che abbiamo: può incidere sulla struttura dei mercati, mettere mano a concessioni scritte vent’anni fa, riportare trasparenza dove erano cresciute zone d’ombra.
La Relazione 2025 lo mostra con chiarezza: sulle autostrade abbiamo Piani Economico-Finanziari più chiari, con limiti di durata sensati; negli aeroporti regole più uniformi, che avvicinano gli scali a un quadro comune ma manca ancora un Piano nazionale aeroporti (Pna) adeguato; nelle ferrovie pedaggi ricalcolati su un orizzonte 2025–2029; nei porti un richiamo netto a un dovere minimo di trasparenza; nel trasporto pubblico locale una cornice di costi standard che prova a riportare razionalità.
Come organizzazione sindacale riconosciamo con chiarezza il lavoro svolto dall’Autorità: è un contributo importante, soprattutto in un Paese che troppo spesso fatica a decidere e ad attuare.
Proprio per questo, però, è il momento di guardare avanti con lucidità: siamo arrivati a un bivio e certe scelte non sono più rinviabili.
Con l’avvento dei processi di liberalizzazione la domanda principale è stata una sola: come evitare che nei trasporti regnasse ancora il “Far West”?
Oggi quella fase è superata. La regolazione c’è, è solida, ha strumenti e competenze.
La nuova domanda, quella decisiva, diventa: come trasformiamo questa regolazione anche in valore sociale, non solo in equilibrio contabile?
Perché mettere in ordine numeri, pedaggi e modelli economici è indispensabile, ma dal nostro punto di vista è una condizione necessaria ma non sufficiente. Il salto di qualità si realizza quando nella stessa cornice regolatoria riconosciamo il peso reale delle lavoratrici e dei lavoratori, integrandolo a pieno titolo con tariffe, investimenti e qualità del servizio.
Perché la regolazione, da sola, non basta. L’ART deve continuare a svolgere con rigore la propria missione — e noi lo riconosciamo — ma non può rimanere indifferente rispetto al fatto che la competizione si giochi sistematicamente sul costo del lavoro. La concorrenza sana, quella che fa crescere davvero un settore, si misura su ben altri elementi: la capacità organizzativa delle imprese, la qualità del servizio offerto, l’innovazione nei processi, la capacità di leggere e anticipare i bisogni di utenti e clienti.
Ridurre tutto al costo del lavoro significa mettere in crisi la dignità professionale, snaturare il senso stesso del servizio pubblico, indebolire il sistema invece di rafforzarlo. Per questo è essenziale che, accanto alla regolazione economica, ci sia una chiara attenzione alla dimensione sociale: non per sostituire l’Autorità nelle sue funzioni, ma per ricordare che un mercato è davvero equilibrato solo se la competizione avviene sulla qualità, non sull’abbassamento delle tutele.
È bene ricordarlo con chiarezza: la regolazione economica dei trasporti e la regolazione del lavoro sono ambiti diversi. L’ART ha il compito di garantire trasparenza, concorrenza e corretto funzionamento dei mercati, ma non interviene sul trattamento normativo e retributivo delle persone che operano nel settore.
Tutele, orari, salari, sicurezza e condizioni professionali derivano dalla contrattazione collettiva nazionale e aziendale, dalle norme dello Stato e dai regolamenti europei. È in quel perimetro che si definisce la qualità del lavoro. Per questo è fondamentale che la regolazione economica non incentivi, neanche indirettamente, una competizione basata sul costo del lavoro, ma premi le imprese che investono in organizzazione, qualità del servizio, formazione, sicurezza sul lavoro e capacità di rispondere ai bisogni di utenti e territori. In sintesi, che premi quelle aziende che applicano i Contratti collettivi nazionali di lavoro di settore firmati dalle organizzazioni sindacali comparativamente maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Solo tenendo distinti i ruoli – e mettendo in relazione i loro effetti – possiamo costruire un sistema dei trasporti efficiente, equo e realmente sostenibile.
L’Intelligenza Artificiale: il banco di prova della nostra maturità
La Relazione afferma che «l’AI sta rivoluzionando le modalità di interazione tra l’attività umana e quella delle macchine». È un passaggio condivisibile. L’AI però non è solo un salto tecnologico: è la verifica concreta della nostra capacità di gestire l’innovazione con una visione che tenga insieme sicurezza, efficienza e qualità del lavoro.
Nel mondo dei trasporti, introdurre l’AI senza un adeguato quadro sociale significa correre rischi che non possiamo permetterci. Non parliamo di scenari estremi, ma di effetti molto concreti: modelli organizzativi che ridisegnano turni e carichi di lavoro senza tener conto della dimensione umana, dei tempi di recupero e della qualità della vita; processi decisionali sempre più mediati da piattaforme e algoritmi, talvolta lontani dalla realtà operativa di chi lavora sul territorio; ruoli professionali che cambiano rapidamente, con il rischio di lasciare scoperte le mansioni intermedie se non vengono previsti percorsi solidi di aggiornamento e riqualificazione.
L’AI, lasciata a sé stessa, rischia di diventare una macchina di efficienza locale e inefficienza di sistema: fa risparmiare in un punto della filiera, ma apre costi nascosti altrove, sotto forma di malattie professionali, infortuni, turnover, perdita di competenze.
Per questo la proposta della Fit-Cisl è semplice, ma a suo modo dirompente:
per ogni significativo provvedimento che introduce AI, digitalizzazione, automazione spinta, le aziende, in sede sindacale, dovrebbero riconoscere una sorta di “dichiarazione di impatto sul lavoro”.
In altre parole, una valutazione chiara e pubblica che risponda a domande molto concrete: chi viene toccato da questa innovazione? Quali nuove competenze saranno necessarie e in quanto tempo? Quanti e quali esuberi potenziali si possono generare, e come si intende gestirli? Quale piano di formazione e quale copertura finanziaria accompagnano il cambiamento?
Non si tratta di frenare l’innovazione. Al contrario: si tratta di metterla nelle condizioni di reggere nel tempo, perché un sistema dei trasporti moderno non è quello che rottama lavoratori più velocemente, ma quello che riqualifica le persone con più sistematicità e coraggio.
Autostrade e aeroporti: il “pilastro lavoro” che ancora manca nei PEF
Su autostrade e aeroporti, l’Autorità ha fatto ciò che per anni è stato rinviato: ha rimesso mano ai Piani Economico-Finanziari, ha chiarito la durata delle concessioni, ha reso più comprensibile la relazione tra pedaggi, investimenti e remunerazione del capitale. Questo percorso costituisce, di fatto, un’operazione di riallineamento che ci avvicina agli standard di altri Paesi europei.
Ma, guardando dentro quei PEF, resta un vuoto grande come una galleria: i pilastri economici e tecnici ci sono, quello sociale quasi mai. In termini concreti, nei documenti raramente troviamo:
quanti lavoratori sono coinvolti in quella concessione, con quali contratti e livelli retributivi,
quale uso si fa di appalti e subappalti, quali risorse sono destinate a sicurezza, formazione, benessere, parità di genere.
Se questi aspetti restano fuori dai PEF, il messaggio implicito è che il lavoro è un elemento esterno alla sostenibilità della concessione. Ma chi frequenta cantieri, caselli, aree di servizio sa che non è così: una rete autostradale o aeroportuale che vive di appalti al massimo ribasso e ricambio continuo di addetti è una rete fragile. Prima socialmente, poi economicamente.
Per questo sarebbe opportuno che la prossima stagione di regolazione prevedesse: clausole sociali e contrattuali di qualità integrate nei PEF, con indicatori misurabili su occupazione stabile, sicurezza, formazione; una quota della remunerazione del capitale legata al raggiungimento di questi obiettivi sociali, non solo economici; un confronto strutturato con le parti sociali nella fase di definizione dei parametri.
Non è ideologia. È, molto semplicemente, gestione del rischio. Una concessione “socialmente solida” è anche una concessione con meno contenziosi, meno incidenti, meno rotazioni forzate di personale e, alla fine, una migliore qualità percepita dagli utenti.
Ferrovie: far correre i treni non basta
La decisione di ridurre del 30% i pedaggi ferroviari è un segnale concreto verso la competitività del ferro, in linea con gli obiettivi ambientali europei. Ma questo determinerà una diminuzione degli introiti per il Gestore dell’infrastruttura (Rfi) e, a quel punto, chi compenserà i costi per la manutenzione della linea?
È stato poi posto il caso dell’Alta Velocità tra Roma e Firenze. Tecnicamente si può affermare che ridurre l’eterotachia – cioè la coesistenza di treni molto veloci e treni più lenti sulla stessa linea – ha una logica: una infrastruttura progettata per l’AV deve funzionare principalmente in AV. A questo punto però bisogna dare un’alternativa ai convogli che viaggiano a minori velocità, con tempi stabiliti e garanzie di qualità. La risposta non può essere: “ci penseranno le Regioni”.
Se c’è una cosa che la storia dei trasporti ci insegna è che i problemi che non affrontiamo a livello di sistema ricompaiono altrove, più complicati e più costosi.
Si potrebbe pensare di istituire, sulle tratte critiche, dei veri e propri “corridoi pendolari protetti”.
Non uno slogan, ma un impegno scritto: un numero minimo di collegamenti garantito alle ore di punta, fasce orarie “intoccabili” per l’andata e il ritorno dal lavoro, standard minimi su puntualità, sovraffollamento, informazione ai viaggiatori.
E soprattutto, è necessario che nel dialogo tra ART, RFI, imprese ferroviarie e Regioni partecipino in modo strutturato anche le organizzazioni sindacali dei lavoratori dei trasporti.
Perché un orario, una traccia, un cambio di materiale rotabile non modificano solo le abitudini dei passeggeri: cambiano turni, responsabilità, carichi di lavoro di chi quei treni li guida, li scorta, li prepara, li ripara.
Porti: dove mancano i dati, spesso manca anche la buona occupazione
Nel capitolo dedicato ai porti, la Relazione 2025 fa una cosa non banale: alza il velo e scrive che molte Autorità di Sistema Portuale non forniscono i dati richiesti in modo completo.
È una frase che a molti può sembrare tecnica, ma per chi vive i porti è un campanello d’allarme chiarissimo.
Perché dove non arrivano i dati, spesso si annidano: catene di subappalto difficili da ricostruire,
differenze di trattamento normativo e retributivo ingiustificati tra lavoratori che fanno lo stesso lavoro, standard di sicurezza non sempre all’altezza della complessità delle operazioni.
Una scelta di buon senso sarebbe quella di prevedere che nessun grande sviluppo concessorio, nessuna decisione strategica di rilievo possa essere adottata senza un set minimo di dati obbligatori e pubblici, che includano anche le dimensioni del lavoro: organici per funzione, uso di appalti e subappalti, indicatori di sicurezza, formazione erogata.
TPL: dalla logica del costo alla logica del capitale umano
Nel trasporto pubblico locale l’ART ha introdotto costi standard, ha reso più razionale il tema dell’“utile ragionevole”, ha contribuito a migliorare i criteri di affidamento dei servizi.
È un passo avanti importante, perché il TPL è stato per anni un terreno di emergenze croniche, gare al ribasso, contabilità poco leggibili. Da anni stiamo sostenendo che l’eccessiva frammentazione del settore (nel nostro Paese si contano circa 800 aziende mentre nel resto di Europa non si arriva alla decina) penalizza l’economia del sistema, gli utenti e i lavoratori. Oggi chiunque frequenti depositi bus, tranvie, linee metro sa che la vera emergenza non è solo economica: è demografica e professionale. Mancano autisti, l’età media cresce, facciamo fatica ad attrarre giovani, molte condizioni di lavoro sono difficili da conciliare con i tempi di vita contemporanei.
In questo contesto, continuare a ragionare solo in termini di “costo del lavoro” non è solo ingiusto: è tecnicamente e strategicamente miope. Il lavoro nel TPL come in tutte le altre modalità di trasporto è, a tutti gli effetti, capitale produttivo: se non c’è, il servizio non parte.
Ecco perché l’idea di un Indice di Qualità del Lavoro nei Trasporti (IQL-T) non è un dettaglio.
Potrebbe diventare un criterio da inserire nei bandi, nei contratti di servizio, nelle stesse valutazioni dell’ART: le aziende che investono in formazione, sicurezza, parità, stabilità dovrebbero avere un vantaggio competitivo. Chi considera il personale solo come una variabile di costo dovrebbe sentirsi spinto a cambiare approccio.
Non è “buonismo sindacale”. È costruire un’industria del TPL in grado di reggere la transizione energetica e digitale senza gettare la spugna per mancanza di persone.
Un metodo nuovo: la Conferenza Sociale della Mobilità
A questo punto la domanda è inevitabile: tutte queste proposte come entrano nella regolazione concreta? Non basta scrivere buone idee su un editoriale, e lo so bene.
Serve un luogo istituzionale stabile in cui l’ART, il Governo, le Regioni, le imprese e le parti sociali possano incontrarsi periodicamente per discutere di: indicatori di qualità del lavoro, impatti delle innovazioni tecnologiche, percorsi di formazione e riqualificazione, contrasto alle aggressioni, uso delle risorse derivanti da concessioni, pedaggi e canoni.
Questo luogo potrebbe essere una Conferenza Sociale della Mobilità. Non una passerella, non l’ennesimo tavolo che si riunisce per farsi le foto, ma un vero “cervello collettivo” composto da tutti gli attori del settore, parti sociali comprese, che aiuti l’Autorità a vedere il sistema nella sua interezza, non solo attraverso il filtro – pur essenziale – della regolazione economico-tecnica.
Accanto a questo, avrebbe senso istituire un Fondo per la Transizione Giusta della Mobilità, alimentato da una piccola quota dei canoni di concessione e dei pedaggi, destinato a:
riqualificare i lavoratori dei settori più esposti, finanziare formazione digitale e green,
accompagnare le transizioni occupazionali quando cambiano tecnologie e modelli di servizio.
Sarebbe un modo concreto per dire che la transizione non è solo una questione di motori e algoritmi, ma anche di persone che devono poter cambiare senza essere lasciate indietro.
Riallineare gli aghi: economia, tecnica, persona
Alla fine, tutto si riduce a una domanda che sembra teorica e invece è molto pratica: che cosa consideriamo eccellenza nel sistema dei trasporti?
Se la risposta è soltanto: bilanci in ordine, tariffe coerenti, indicatori di efficienza in miglioramento, allora una parte importante della storia continuerà a restare fuori dall’inquadratura.
Per la FIT-CISL, per chi guarda al sistema con una prospettiva europea, il successo è un altro: un sistema che decarbonizza senza espellere persone, che innova senza bruciare competenze,
che regola i mercati rafforzando, e non indebolendo, il lavoro.
La Relazione 2025 dell’ART ci consegna una base solida. Ora si tratta di riallineare gli aghi della bussola: l’economia, la tecnica, la persona.
Non si chiede all’ART di diventare un sindacato, né un ministero sociale.
Si chiede qualcosa di più semplice e, al tempo stesso, più ambizioso: che, nella sua piena maturità istituzionale, possa considerare anche gli aspetti legati al lavoro ascoltando obbligatoriamente anche le parti sociali.
Fare dell’Italia dei trasporti non solo un sistema più efficiente, ma un Paese più giusto mentre si muove.
Solo quando il lavoro non sarà più “un mero costo”, ma una variabile integrata nelle regole, potremo dire che la rotta verso una mobilità sostenibile, efficiente e umana è davvero tracciata.
E solo allora – ne sono convinto – la nostra bussola sociale tornerà a puntare con decisione verso nord. La Fit-Cisl, come sempre, lavorerà per conseguire questo obiettivo.
Approfondimento
L’Autorità di Regolazione dei Trasporti, istituita nel 2011 dal “decreto Salva Italia” del governo Monti e operativa dal 2013 con sede a Torino, nacque per «garantire accesso equo e non discriminatorio alle infrastrutture e promuovere efficienza, concorrenza e qualità dei servizi» (art. 37, d.l. 201/2011). A più di dieci anni dalla sua istituzione, l’ART è oggi una delle autorità indipendenti più giovani e più strategiche, ma anche quella che più chiaramente mostra il divario tra la precisione delle regole economiche e l’assenza di una visione sociale del lavoro nei trasporti.
Il Presidente dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti resta in carica sette anni, senza possibilità di rinnovo, insieme a due componenti nominati con parere favorevole del Parlamento.
L’Autorità si finanzia interamente con un contributo annuale delle imprese regolamentate, oggi pari allo 0,045% del loro fatturato, senza oneri per il bilancio dello Stato.
Questo sistema — previsto dalla legge n. 214/2011 — assicura indipendenza economica, ma impone anche rigore e sobrietà nella gestione, valori che l’ART ha mantenuto negli anni.